Niente è mai veramente perduto, o può essere perduto, nessuna nascita, forma, identità, nessun oggetto del mondo, nessuna vita, nessuna forza, nessuna cosa visibile; l'apparenza non deve ostacolare, né l'ambito mutato confonderti il cervello. Vasto è il Tempo e lo Spazio, vasti i campi della Natura. Il corpo, lento, freddo, vecchio ,cenere e brace dei fuochi d'un tempo, la luce velata degli occhi tornerà a splendere al momento giusto; il sole ora basso a occidente sorge costante per mattini e meriggi;alle zolle gelate sempre ritorna la legge invisibile dellaprimavera, con l'erba e i fiori e i frutti estivi e il grano.P.B. Shelley



08 ottobre 2010

PICCOLO SATURNO

Brano dal "Quaderno del Sergente" di Marco Paolini

Piccolo Saturno è il nome in codice dell’operazione con cui l’Armata Rossa spazzò via dal Don i reparti dell’Asse.
Leggo, rubo le parole al libro di Revelli, asciutto e pieno di amaro che me ne rende difficile la lettura; infinite le beghe di comando, l’orizzonte che a livello del Sergente si riesce a sopportare diventa intollerabile come un gergo militare da giovane guerriero.
I nomi delle compagnie che fino ad oggi mi sembravano una geografia affettiva, sembrano diventati improvvisamente una competizione di campanili dove i miei son meglio dei tuoi. Di colpo sento una trappola nel terreno che mi sembrava ormai solido: dettagliare i riferimenti, restare troppo dentro a un battaglione, una compagnia, un gruppo, è una follia; meglio trattare un gruppo ancor più piccolo, meglio fare come chi ignorava le carte topografiche e andava avanti sapendo che il fuoco amico può far male come quello del nemico.

Vorrei solo cantare di uomini trascinati lontano dai propri piedi, cavalieri senza cavallo, senza corazza, con inutili carri di corde e piccozze da montagna su una pianura mossa e ondulata. Con i chiodi degli scarponi, i fucili modello 91 (cioè l’anno di fabbricazione: 1891) che per l’età avevano un pregio, ma non erano ad avancarica, e le bombe a mano umanitarie perché quasi mai scoppiavano. Artiglieria museo e per parlare poche radio pesanti e scassate allergiche al freddo. Niente mine, niente bengala, niente pallottole traccianti, munizioni quasi contate, divise per un clima prealpino, di pessima lana, scarpe di un cuoio duro e asciutto che sembrava di cartone. Truppe di montagna male attrezzate e appiedate, buttate in pianura dove la guerra era moto-corazzata.
Vorrei parlare a dei ragazzi come in un film, credo che sia una storia da Far East.

Abbiamo un’idea esotica della steppa, dei cosacchi del Don. Devo andare laggiù. Sicuramente nel ‘40 quei territori erano più selvaggi di come li vedrò io, meno coltivati estensivamente, ma qualcosa troverò. Viaggiare attraverso la Russia in modo un po’ clandestino è qualcosa di potente come l’India o l’Africa.
Senofonte mi può aiutare per incredibili parallelismi a 2.400 anni di distanza. Ma l’Anabasi è anche un viaggio attraverso il mondo dei vinti che continua a sopravvivere, un viaggio nell’orgoglio di appartenenza a un gruppo, un viaggio verso un’idea di baita. Oggi per noi l’anabasi non porta sempre al punto di partenza, ma in un centro che si sposta nel tempo.

So che per qualcuno sarà ridicolo quello che sto per dire ma la differenza tra la prima e la seconda guerra mondiale è la stessa che c’è tra il rugby e il calcio: la guerra antica/il fattore terra.
Il calcio è più veloce, si fanno i blitz, la guerra lampo, il contropiede, c’è il possesso di palla, il fattore tempo e c’è la novità del pubblico che è coinvolto nel conflitto. Per la prima volta nella guerra moderna era ammesso il tiro a segno sui civili con ogni tipo di arma disponibile.
La seconda guerra mondiale è stata una gara tra potenze industriali, tra chi aveva le armi più potenti, i mezzi più veloci, più micidiali, e a volte una gara tra chi ha avuto prima le armi segrete e quelle più semplici, l’atomica e il kalajnikoff.
Gli italiani furono mandati a giocare a calcio con un pallone da rugby.

Tra il ‘39 e il ’42 il capo del governo italiano Benito Mussolini dichiarò guerra contemporaneamente 19 nazioni di questo pianeta.
In teoria alcune guerre dovevano venire dopo altre, ma in pratica non andò così perché le guerre non finiscono mai quando uno ha previsto e infatti durano fino alla fine.
In Russia, nell’estate del 1941 60.000 italiani, e poi nell’estate del 1942 altri 170.000, vengono mandati a far la guerra a fianco degli alleati tedeschi, 57.000 di questi erano alpini, con i muli degli alpini e un progetto da alpini: fargli scalare le montagne del Caucaso col fucile in mano, farli discendere dall’altra parte e farli arrivare in Persia a conquistare i pozzi di petrolio e poi l’Arabia e poi… Per adesso fermiamoci qui.

C’era già un esercito italiano in Africa del Nord e non se la stava passando bene, ma forse all’inizio del 1942 qualcuno poteva ancora immaginare una manovra a tenaglia per fare del Mediterraneo un mare nostrum, ma quando gli italiani arrivano in Russia tra agosto e settembre del 1942 è ben chiaro che i piani sono cambiati. I russi hanno fermato i tedeschi e contrattaccano. L’offensiva sul Caucaso è rinviata, intanto bisogna affrontare i russi in pianura anzi nella steppa.
I tedeschi sono tecnologici, attrezzati, ma la Russia è così grande che per mettere un soldato a ogni metro sulla linea del fronte bisogna usare gli alleati: italiani, rumeni, ungheresi, finlandesi, tutto fa brodo. I tedeschi non vogliono conquistare tutta la Russia, bastano le città, conoscono la storia, non vogliono rifare gli errori di Napoleone, hanno i motori, le colonne corazzate per correre veloci.
I russi hanno all’inizio hanno solo la forza del numero e la usano sacrificando un numero immenso di uomini per non perdere città come Stalingrado. E la grande macchina da guerra tedesca rallenta, rallenta e il tempo passa, passa anche per gli alleati dei tedeschi.

Gli italiani sono arrivati in estate e hanno avuto a settembre il battesimo del fuoco in piccoli eroici inutili scontri. Gli italiani non parteciparono a nessuna delle decisive battaglie del fronte orientale ma furono ugualmente massacrati da un’offensiva scatenata dai russi il 15 gennaio, che disintegrò un intero corpo d’armata in 4 giorni.
Lo stesso uragano di fuoco si abbatté sui romeni e gli ungheresi che si ritirarono in massa. L’unica armata che resistette per quasi un mese all’offensiva fu il corpo d’Armata Alpino che iniziò a ritirarsi quando ormai era praticamente circondato, chiuso in una sacca. Perché gli alpini non si ritirarono?

I tedeschi a Stalingrado da assedianti si erano trasformati in assediati, Hitler sperava di salvarli con l’arrivo dei nuovi carri armati Tigre fatti arrivare apposta dalla Francia. Per dar tempo a questi di arrivare serviva una diga per trattenere i russi, per ordine di Hitler gli italiani dovevano resistere sul Don.
I carri armati arrivarono, ma non riuscirono a salvare i camerati a Stalingrado e anche quei carri si girarono per tornare indietro nel gennaio del 1943, inseguiti da stormi di noiosissimi carri armati russi T 34.

Schierato lungo il fiume Don, lungo una lunghissima linea di fronte fatto di Caposaldi, come i forti della frontiera americana verso ovest, solo che questi forti erano girati verso est e la divisa non era quella blu con i bottoni d’oro della cavalleria, ma quella grigioverde di lana dell’ Italia e le scarpe di cuoio con suole di cartone lisce, e al posto dei cavalli c’erano i muli, magnifici puzzolenti muli. Nei caposaldi mancava tutto il necessario e abbondava l’inutile, così gli uomini si arrangiarono finché dovettero partire e la mancanza del necessario fu allora fatale a tanti, ma qualcuno, inspiegabilmente, sopravvisse. Questa è la storia di uno di loro.

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